Marco Gualdani - 14 October 2022

Addio a Giovanni Di Pillo; lo ricordiamo con una nostra lunga intervista

Ci ha lasciato Giovanni Di Pillo, la voce del motociclismo dal cross anni 80 e 90 e del periodo d'oro della SBK. Aveva 67 anni. Nel 2012 lo avevamo intervistato per FUORIstrada, ripercorrendo parte della sua vita fino ad allora. Ve la riproponiamo per ricordarci quanto fosse esuberante e totalmente innamorato della vita e della motocicletta

Giovanni di Pillo ci ha lasciati. Lo storico telecronista di origine fiorentina, che per anni ha raccontato il Mondiale SBK, si è spento nella serata di giovedì 13 ottobre, all'età di 67 anni. Era ricoverato da tempo all'ospedale di Careggi (FI) per problemi cardiaci. Gli appassionati delle due ruote lo ricorderanno per le celebri telecronache con protagonisti Falappa, Haga, Corser, Bayliss o Biaggi o per essere stato lo speaker dell'Autodromo del Mugello, di tanti eventi, oltre che il direttore del canale Nuvolari e inviato per Radio 105 e Virgin Radio. Ma per il mondo del fuoristrada Di Pillo era lo speaker per eccellenza. La sua voce ha reso ancor più grandiose le mitiche edizioni del Superbowl di Genova, del Motor Show, del FastCross; ma anche di tantissimi GP iridati di motocross, fino al Motocross delle Nazioni a Maggiora del 1986. Nel 2012 eravamo stati a casa sua per intervistarlo; in quella lunga chiacchierata ci ha raccontato qualche aneddoto sulla sua carriera e ha mostrato tanti lati del suo carattere incontenibile. Ve la riproponiamo quasi integralmente.

A 57 anni, come sta Giovanni Di Pillo?

“Bene, ho giusto qualche acciacco la mattina. Sto cercando dappertutto il signor Ceriani, ma non sono ancora riuscito a trovarlo; in compenso ho beccato il signor Marzocchi e l’ho riempito di botte, perché le vecchie sospensioni Marzocchi a tre posizioni mi hanno accorciato la spina dorsale, provocato lo spostamento del bacino e la displasia delle anche! Maledetti ammortizzatori con 4 cm di corsa...”.

Del resto non sei più un ragazzino... Hai alle spalle quasi 40 anni di moto, vissuti alla grande. Come è iniziato tutto?

“Da un passione insita nel DNA. I miei genitori erano un avvocato e un docente universitario e nessuno era interessato alle moto. Quando ho iniziato negli anni 70, poi, le moto erano considerate uno sport per depravati, scippatori, delinquenti e cose del genere. Quindi a casa mia non potevi dire che ti eri appassionato. Una volta ho provato a portare i miei a una gara a Polcanto; mia mamma si è presentata con una pelliccetta e mio padre ci rimise le scarpe buone. Alla partenza si terrorizzarono da morire per il rumore e la nube di polvere che si alzava e che poi fu avvistata a Pistoia 20 giorni dopo. Secondo loro era una cosa da pazzi, perché dei 40 partenti al primo giro ne transitavano 12-13 e tutti gli altri si accartocciavano o rompevano e le ambulanze andavano via di continuo. Maledetti manubri da un metro. Ho dovuto aspettare di avere 18 anni per andare via di casa, firmarmi la licenza e iniziare a correre”.

Quindi sei nato pilota.

“No, non sono nato nulla. Non ho neppure fatto in tempo, perché appena ho avuto la possibilità di farlo mi si è staccata la mano destra di netto. Sono stato due anni senza l’uso della mano che, per fortuna, un pazzo mi aveva riattaccato. Sono nell’enciclopedia medica Larousse come prima mano riattaccata in Europa. Quando ho ripreso l’uso ormai dovevo lavorare e poi ero già vecchio”.

E l'incontro con il microfono come è avvenuto?

Dall’esigenza di non dover andare a scaricare le casse del pesce al mercato a Firenze o a Viareggio, perché il lavoro manuale non fa per me. Ho deciso di rimanere nell’ambiente delle moto e di fare una cosa che mi piacesse. Volevo fare il giornalista. Solo che allora i giornalisti non venivano pagati. Tutti contratti finti, prezzi stracciati, un lavoro da disperati. Prendevo trenta mila lire a pezzo per seguire il Mondiale, senza rimborsi. Allora dovevo andare ospite di una Casa o di un team, ma succedeva sistematicamente che chi mi accompagnava poi aveva dei problemi meccanici... La Gilera era l’unica che aveva i soldi per portare in giro i giornalisti italiani e quando uscivano le bielle dal carter vedevi l’articolo con dentro scritto “la candela ha fermato Gaston Rayer”, oppure “Rinaldi ha perso il Mondiale per un pezzo da 200 lire”. Altro che motori distrutti. Quindi non guadagnavo, ma soprattutto non ero libero. Così dovevo trovare qualcosa che mi portasse dei soldi e che mi permettesse di avere tempo libero. Iniziai a bazzicare il Mugello finché, un giorno, Lido Gualdani (papà del nostro Marco, ndr) mi sentì parlare al microfono e mi propose di fare lo speaker nel motocross, inizialmente nell'impianto di Polcanto. Da lì ho iniziato a fare tutte le gare di velocità e tutte quelle del motocross, guadagnando cifre fenomenali ogni weekend, mentre durante la settimana ero libero di andare in moto o di fare quello che mi pareva. Questo periodo è durato per circa 10 anni, dopodiché sono passato alla televisione”.

Con quel microfono hai fatto appassionare alla moto tante persone.

“Il fatto è che gli speaker prima di me erano dei raccomandati e anche molto soporiferi. Ma per poterli sostituire e impadronirmi del motociclismo mi dovevo inventare un modo nuovo. Così mi ispirai a uno stile che avevo sentito vagamente in America da Larry Meyer e qualcun altro. Uno stile più giovane, più vispo, più vicino alla bellezza di questo sport. Non urlare per urlare, ma dare dei tempi, dei metodi e trasformare quello che era un commento finito lì in qualcosa di più. C’è stato chi l’ha capito, tipo Giuseppe Luongo che mi dava degli impianti fonici mostruosi stile Lucio Dalla da 50.000 watt; Luongo capì presto che se anche la gara era una schifezza, ma lo speaker era buono, la gente andava a casa contenta lo stesso. Così ho inventato un mestiere che non esisteva, quello dello speaker”.

E poi ti sei dovuto reinventare anche in TV.

“Il passaggio dalle gare alla televisione sembra una cosa facile, ma in realtà fu molto difficile, un mondo completamente diverso. Alle gare hai modo di esprimerti con un certo linguaggio, ma è ben diverso quando sei su una televisione generalista e devi parlare “alla casalinga di Voghera”; l’incubo di qualunque giornalista. Devi cambiare tutto. In più io arrivavo dopo Federico Urban e ricevevo lettere del tipo “Ma perché urli in televisione? Sei scemo?”. Per fortuna, una su 900 era di complimenti e così capivo che potevo andare avanti. Posso dire di avere inventato anche le cronache in televisione, portando questo stile che avevo sperimentato sui campi di gara. E a me non ha regalato niente nessuno, non ho tessere, ho fatto una gavetta infinita”.

Ma come hai fatto a sederti sulla sedia del telecronista televisivo?

“Ai tempi facevo lo speaker di tutto: GP, Motor Show, tutte le gare nazionali. Un giorno venne da me un signore e mi chiese se me la sentivo di fare la televisione. Io bluffando come un grande dissi: “Certo, l’ho già fatto, ho lavorato 10 anni in una televisione privata di Firenze facendo le dirette”; in realtà non ne avevo mai fatta una. E mi sono anche subito reso conto che non c’era neppure un libro su cui apprendere il modo giusto per fare una diretta TV. Sono andato allo sbaraglio alla prima gara a Donington nel 1999. Sono dimagrito 22 chili solo per quella gara. Non conoscevo niente, figuriamoci i termini tecnici. In cuffia mi dicevano “Ti mando le Cairon” ,“Sì, con poco zucchero grazie” rispondevo. Ma poi è sempre andata bene. Ho la fortuna di avere un buon fiuto e ho seguito il Motomondiale al tempo di Schwantz, Lawson, Gardner, poi sono andato al motocross leggendario di Malherbe, Geboers, O’ Mara, Johnson, poi la SBK, quindi il supercross del dopo McGrath”.

Ma era bello perché era bello o era bello perché c’era Di Pillo?

“Macché. Questo è il grandissimo equivoco di tutti gli scemi che mi scrivono. No. Era bellissimo a prescindere. È facilissimo fare il mio lavoro quando hai Fogarty e Falappa in pista o Bayliss ed Edwards, era facile commentare Gardner, Spencer. Io dovevo solo commentare. Per fare bene questo lavoro non devi dire quello è figo o quello è cretino, perché per farlo devi essere uno che va come loro in pista, altrimenti non puoi giudicare. Per meritarti i soldi, tanti, che ti danno per essere lì, devi essere sempre informato su tutto quello che succede e dare notizie. Tutti sono commissari tecnici della nazionale dal divano di casa e tutti sono telecronisti. Ma poi quando prendi in mano il microfono devi essere in grado di fare quello che ti è stato chiesto e per cui ti pagano”.

C’è poi di mezzo anche il giudizio della gente, almeno quanto un pilota in pista.

“No, molto di più, perché io mi faccio tutte le gare, il pilota fa una manche e poi sta fermo. A me non è mai interessato, perché se vuoi fare questo lavoro e non l’impiegato chiuso in una stanza, accetti il giudizio del pubblico. Una volta la madre di Pirovano mi rincorse con una chiave inglese perché non parlavo bene di suo figlio o Prandini che dopo una gara mi ha aspettato e mi ha pestato. Lo accetti. Accetti le critiche così come l’amore smodato, è un lavoro per il pubblico”.

Consiglieresti a un giovane di fare il commentatore delle moto e di seguire le orme di Di Pillo?

“No. Perché siamo in Italia. Gli direi di andare in America o in un altro paese civile. Qui si accede solo se hai una tessera di partito o di qualche congrega, o sei raccomandato. Io di tessere ne ho avuta solo una nella mia vita, quella del MC per poter correre. Un giovane ha la possibilità di iniziare, ma non di andare in serie A, cioè in TV. Io mi sono smazzato un sacco di contratti a termine anno dopo anno, senza essere mai assunto. Poi ho trovato un editore matto che voleva fare un canale di motori come Nuvolari e ci sono andato. Ma solo perché c’erano determinate condizioni”.

Motocross, Superbike, Supercross. Il tuo cuore batte per?

“Supercross. La MotoGP attuale no. Se devo fare una classifica dico Supercross, Mondiale con Cairoli, SBK e GP”.

Il pilota di motocross che ti è piaciuto di più?

“Non ne ho la più pallida idea. Come fai a dirlo. Magoo Chandler, Falta che era il primo pilota che metteva la moto di traverso e che oggi nessuno sa chi sia. La gente non ha passione della storia e spesso si ferma a Valentino Rossi e basta. Purtroppo se qualcosa accade in TV esiste, senza la TV non esiste nulla. Io amavo gente che si chiamava Magarotto, Dal Brun, Dolce, cioè chi dava sempre il 110% e non pensava mai al risultato. Che per lo speaker o per il pubblico erano cose leggendarie. Se devo dire un numero uno direi David Bailey. Se lui non si fosse fatto male Johnson sarebbe stato sempre un numero due. Bailey ha vinto il Supercross, il National, Bercy, il Nazioni di Maggiora, Tokyo, il Motor Show. Io ho fatto lo speaker a Bologna alla sua ultima gara, perché da lì è tornato a casa ed è caduto restando sulla sedia a rotelle”.

Era diverso il rapporto con i piloti a quei tempi?

“Ciao. Era un’altra cosa. Era tutta una famiglia, un circo che andava in giro. Ci si facevano gli scherzi dalla mattina alla sera. Una volta mi invitarono a prendere un caffè nel “clan” dei belgi, che era il gruppo più irraggiungibile, quello in cui era impossibile entrare. Poi ho capito perché; mi avevano sganciato la sedia e mi avevano messo una bacinella d’acqua ghiacciata sotto al sedere. E io sono stato costretto a lavorare tutto il giorno con il culo bagnato perché quelle merde di Malherbe, Jobè, Geboers ed Everts mi avevano invitato a prendere il caffè. Oppure andavo via e trovavo la macchina senza le ruote appoggiata sui mattoni e dovevo andare in giro per tutta la pista a cercare 4 pneumatici dell’Espasse, perché qualcuno me le aveva nascoste. Poi tutto si è evoluto e va bene così, ma ai tempi era più semplice. Io sono andato a casa di Lawson un sacco di volte. Immaginati oggi; come fai a chiedere a Stoner di invitarti a casa sua a Kurri Kurri…”.

Rinaldi-Maddii: il periodo più bello?

“No, quelli sono stati gli albori del cross in Italia. Prima di loro c’era poco: Zocchi, Forni, Miele. Rinaldi e Maddii furono il frutto della nascita della scuola italiana. Facevamo gare con 40.000 persone e grazie all'abilità di gente come Comanducci, Gualdani e lo staff che c'era dietro con Gori, Rapisarda e io offrivamo uno spettacolo di altissimo livello. Per la prima volta il motocross da una cosa per straccioni, ridicola e poco credibile aveva sponsor come la Shell, la Chesterfield o la Magneti Marelli e metteva in scena uno spettacolo di altissimo livello in diretta televisiva Rai. La gente lo vedeva tutte le domeniche e poi veniva alle gare”.

Eppure oggi abbiamo un cinque volte campione del mondo e non siamo a quei livelli.

“Perché il motocross non è in televisione. Televisione vuol dire uno dei 6 canali nazionali, non qualcosa disperso per il digitale terrestre”.

Hai assistito anche a un cambio di tecnologia, che arrivò proprio in quegli anni.

“Ricordo il primo monoammortizzatore singolo o il primo telaio a tubi quadri in alluminio. Ce l’aveva Maddii su una Honda 125. A Montevarchi lo piegò, si ruppe il cannotto e Corrado disse: “Questo tipo di telaio non andrà mai avanti, non lo voglio più vedere”... Ah ah ah!”.

I piloti di oggi come li giudichi?

“Come li giudico... Meravigliosi. A Cairoli farei un mezzo busto in marmo. Philippaerts, poi, mi piace da morire, mi piacciono tutti. Piuttosto giudico un imbecille quello che ha fatto sparire il due tempi dalle piste. Perché la 450 è una formula sbagliatissima. Pensa all’indoor, è un controsenso. Una stupidaggine impensabile; si doveva restare su cilindrate umane. I piloti di oggi fanno delle cose mirabolanti, che non capisco come siano possibili. Oggi, tra l’altro, viviamo un momento molto bello per l’Italia, con Rossi, Cairoli e tutti gli altri ed è una situazione fantastica, perché in passato ci sono stati periodi in cui si doveva fare il tifo per piloti impronunciabili. A me è toccato intervistare gente come Heikky Mikkola. Ma come fai a intervistare uno che si chiama Eikky Mikkola? Oppure Hakan Carlquist? Ciao. David Philippaerts, che non è il massimo della comunicazione, in confronto è loquace. E guarda che a me piace questo suo modo di essere così duri, vecchio stile. Anche Tony è uno che sguscia via, uno che non ama le interviste. A lui non interessa, gli piace andare in moto, non essere personaggio e questo gli basta. Gli piace guidare e per questo va rispettato”.

Molta gente pensa che tu sia un mezzo pazzo che combina solo casini dalla mattina alla sera.

“Ed è esattamente così. Sono uno che fa quello che voleva fare. Sono felice, soddisfatto della mia vita, ho fatto quello che sognavo di fare. Ho vissuto in prima persona le 10 gare più belle, come il Nazioni di Maggiora del 1986 o la sfida Bayliss-Edwards a Imola del 2001”.

Il tuo mito è legato anche a quanto accaduto con Falappa. Per chi non lo sapesse, tu sei stato in grado di risvegliarlo da un coma irreversibile dopo l’ennesima caduta, grazie a una registrazione passata in cuffia in cui urlavi a Giancarlo di risvegliarsi, perché Scott Russel, suo rivale in pista, lo stava per raggiungere e che si doveva dare una mossa. Una cassetta scandita come se fosse la telecronaca di una gara entusiasmante, passata a ripetizione nelle orecchie di Falappa. È stato quello il momento più bello della tua carriera?

“Quello è stato il più profondo. Ed è stato il momento in cui ho capito che, in fondo, dietro a questa mia passione che prendo con grande ironia c’è qualcosa di vero. Ma se l’avessi previsto non l’avrei fatto con quella leggerezza. Mai avrei pensato di poter influire così tanto sulla gente, facendola appassionare alla moto, ma presto ho anche capito che quella per la moto è una passione che si paga e che io ho pagato in prima persona. Mi sono fratturato tutto, ho fatto tre coma e forse ho instradato gente che poi ha pagato caramente a sua volta questa passione. Bisogna ricordarsi sempre di avvicinarsi alla moto con lo stesso rispetto con cui ci si avvicina ad un’arma carica, perché la moto da essere un mezzo che ti regala le emozioni più belle del mondo, si trasforma in un attimo in un’arma mortale. Io mi sono avvicinato troppe volte con il sorriso a una pista da cross e sono ripartito in ambulanza, non sapendo come e quando sarei ritornato. Risvegliare Falappa è stato l’apice di comprendere che forse dietro a questa cosa di istillare la passione, c’è altro”.

La perdita di Simoncelli e il modo in cui è stata affrontato dalla famiglia, ha avvicinato ancora di più la gente alla moto e il messaggio era che la moto è bella anche nel dolore e non un mezzo con cui ci si uccide e basta.

“Maledizione. Noi venivamo da un limbo di 30 anni, dove il numero uno, Valentino, ci ha fatto capire in tutti i modi che andare in moto è gioioso, è bello, è carino e che ci allontanava da tanti brutti pensieri. Perché tutti, ogni volta che andiamo in moto e ci abbassiamo la visiera facciamo un esame di coscienza sul fatto che potrebbe essere l’ultima volta. E pensiamo no dai, non può essere questa; e si va. Comunque noi venivamo da un periodo di grande allegria, perché i grandi scomparsi prima di Simoncelli risalivano ai tempi di Pasolini, Paci, Ghiselli e poco più, Perilli to’, ma non abbiamo mai avuto lutti così forti. Nessuno poteva mai pensare che Dovizioso, Capirossi, Rossi o Simoncelli potessero morire. Quando l’ho visto sono scoppiato a piangere subito. È stato un ritornare sulla terra all’improvviso. Bisogna ricordarsi sempre che la moto è una fabbrica di emozioni, uno zen mentale meraviglioso che ti insegna a vivere e affrontare la vita con il manubrio in mano, ma ti può togliere tutto in un secondo. È indispensabile che si usi sempre il massimo delle protezioni possibili, tutto quanto si può fare di meglio per la nostra sicurezza. Se accade un destino come quello di Marco va bene, ma quante volte si vedono in giro ragazzi con le scodelle in testa o la maglietta a mezze maniche. Quella non è la vera cultura della moto”.

Vedi che in fondo, non eri poi così scapestrato. Ci mancherai Giovanni. Grazie per le emozioni. Condoglianze Cristina.

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