Marco Gualdani - 22 November 2022

La storia del Supercross di Genova

Il mese di novembre voleva dire Genova Superbowl, l'evento che portava al Palasport della Fiera gli specialisti del Supercross: McGrath, Reed, Windham, Tomac, Webb, Barcia, Cairoli sono solo alcuni dei grandi nomi che si sono alternati nelle varie edizioni. Purtroppo l'evento si è fermato nel 2015 e ormai è storia. Ma visto che siamo novembre... Riviviamo le emozioni di quelle serate dalle parole di Alfredo Lenzoni, l'organizzatore delle edizioni dal 1994 al 2015

"Zena" una volta...

Se dici Genova, a chicchésia, penserà all'Acquario, oppure alla Lanterna, al Centro Storico, al Museo del Mare, al Porto Antico. I più ghiotti alla focaccia. Noi no. Noi quando sentiamo Genova pensiamo al Supercross. O al Superbowl, come per anni è stato chiamato l'evento indoor più importante in Italia. Cambia poco, basta la parola: Genova. Più che una località è una sensazione. La coltre di fumo sul soffitto, gli applausi della gente, il gran freddo... I campioni che potevi vedere solo lì, da così vicino. A novembre sapevi che c'era Genova ed era un appuntamento imperdibile. Dal 1980 fino al 2015, una storia lunga 36 anni. "Niente è come esserci", recitava il claim della gara, "Niente è come esserci stati" dissi un giorno ad Alfredo Lenzoni, cioè l'uomo al timone dell'organizzazione degli ultimi 20 anni, con la sua OffRoad Pro Racing. Per chi non lo conoscesse, Alfredo è uno che bada al sodo, che non si perde tanto in chiacchiere; ma basta dire "Genova" per farlo partire e non fermarlo più.

"Se chiudo gli occhi vedo tutto. Mi sono perso la prima edizione e l'ultima, ma tutte le altre le ho viste o le ho organizzate; e anche in quel caso le ho sempre vissute da spettatore e, come tale, ho assaporato le emozioni che quell’evento sapeva trasmettere".

Iniziamo dalla fine: perché si è fermato tutto?

"Il palazzetto non era più a norma. Aveva bisogno di interventi radicali per farlo tornare agibile, ma nessuno intervenne, al tempo. Per questo a noi non dettero più il permesso di fare altre edizioni. Posso dire che si sia fermato il palazzetto, prima dell’evento".

Ricordi la tua prima volta da organizzatore?

"Certo, è stata nel 1994 e l’ho fatta insieme a Roberto Bianchini. Eravamo un po’ “scappati di casa” come ci apostrofò il direttore della Fiera di Genova Luciano Bernucca, col quale ho collaborato attivamente per tanti anni. Quella volta è stata un’avventura, un salto a occhi chiusi. Da scappati di casa portammo Jeremy McGrath, Mike Larocco, Jeff Stanton, Larry Ward, Guy Cooper, Mike Craig, Jimmy Button e tanti altri. Eravamo senza esperienza, ma armati da un grande sogno. Ricordo che dopo la gara ci chiamò Stephenson (all’epoca manager dei piloti americani) per fare i complimenti e dirci che non avevamo sbagliato nulla. In realtà non era proprio così, i conti non erano del tutto in ordine, però il palazzetto era pieno, la gara fu bellissima, la pista era a posto. All’epoca il tracciato lo faceva lo specialista americano John Savitsky; successivamente abbiamo iniziato a lavorare con il nostro Armando Dazzi".

Non sei mai riuscito a sostituire Genova con un altro evento.

"Perché è impossibile; Genova era qualcosa di speciale, che abbiamo vissuto fino in fondo. Ricordo quando entrammo nel palazzetto vuoto la prima volta e la sensazione dell'ultimo camion che è ripartito alla fine. Sembrava incredibile, ma ci eravamo riusciti. All’inizio ogni sassolino era un macigno, eppure riuscivamo a caricarcelo sulle spalle. Col tempo quel macigno è stato sempre più leggero, al punto che alla fine le cose venivano molto facili, grazie a tutte le persone che in 20 anni avevano ormai imparato a conoscerci. Noi, bene o male, abbiamo fatto quello che dovevamo, abbiamo sempre pagato tutti e siamo sempre usciti con la massima soddisfazione sotto il punto di vista dell’impegno".

Però ci sono state anche edizioni meno fortunate. Ricordo che dopo il 1998 vi doveste fermare un anno.

"Quella del '98 fu un’edizione strana. Ci affiancammo all’allora Mondiale di Supercross, che richiedeva delle regole che non ci consentirono di sviluppare quello che avevamo in testa. Poi fu deciso di fare due giorni di gara. Ci fu anche un problema con la terra, era bagnata e molto sassosa. Insomma, fu un’edizione storta che mi fece stare male un mese intero, prima di digerirla. Le ripercussioni furono forti sia con gli sponsor sia per il pubblico e fummo costretti a fermarci".

Ma poi siete ripartiti.

"Decidemmo di riprendere nel 2000, pur con qualche perplessità. Ma il risultato fu che dovemmo lasciare la gente fuori dal palazzetto, da tanta che ne era venuta. Ricordo gente impazzita che avrebbe pagato qualsiasi somma pur di entrare. E le edizioni a seguire furono tutte sold out".

Il doppio backflip di Scott Murray del 2007

Quali sono state le edizioni più belle, secondo te?

"Non ricordo bene gli anni, ma ricordo volentieri certe partecipazioni. Dal punto di vista sportivo quella di Cairoli quando vinse (2007), quelle di Reed, di McGrath, il doppio backflip di Scott Murray (sempre nel 2007), ma ancor di più il primo backflip di Mike Metzger (2002). Fu il primo backflip in Europa. E per noi il brivido non fu neanche quello del salto. Aspettavamo Metzger il giovedì e Marco Podestà (che è sempre stato con noi) andò a prenderlo all’aeroporto. L’aereo arrivò, ma Metzger no. Marco non me lo disse, si mosse per conto suo riuscendo a trovare Metzger al telefono. Lui tranquillamente rispose: “Ah, ma era oggi?”. Così salì sul primo volo arrivando il giorno dopo, preciso al pelo. Non provò niente, entrò in pista e fece due backflip, secchi. Ricordo che il pubblico fece un boato tale da far tremare i vetri del Palasport. Forse quella è stata l’emozione più forte, insieme a quella della prima edizione".

Stewart, Pastrana e gli ingaggi

Nella storia c’è stato anche chi quell’aereo non l’ha mai preso. O chi venne a metà, come Pastrana nel 2003. Travis disse di essersi fatto male a un ginocchio e fece solo un giro di pista in borghese.

"Pastrana a noi non aveva detto che si sarebbe dovuto operare fino al mercoledì mattina (martedì sera per loro) prima della gara, a intervento già avvenuto e quando Motosprint era già in edicola. A quei tempi non si riusciva a comunicare velocemente come oggi, così decidemmo di farlo comunque venire, tanto i voli erano ormai prenotati. Non si comportò troppo bene con noi. Così come Stewart".

Stewart, nel 2009, non si presentò.

"Ebbe un malore durante il Supercross di Bercy, che precedeva Genova. Oggi posso pensare che il problema ci fosse effettivamente, però avrebbe potuto almeno farci recuperare i soldi di quattro voli in business class con una semplice comunicazione sul suo stato di salute alla compagnia aerea, ma non lo fece. Fu un peccato, perché in quel momento era all’apice e sarebbe stato bello vederlo a Genova".

Ci furono strascichi anche sulla vostra reputazione.

"Noi non abbiamo mai annunciato qualcosa che non fosse vero o almeno stabilito. Poi le cose le devi dire, mica le puoi fare di nascosto. E pensa che, al contrario, proprio con Stewart volevamo fare una sorpresa a tutti, presentandolo lì, senza annunciarlo prima. Sarebbe stato pazzesco. Non so se saremmo riusciti a farlo, ma ci era balenata questa cosa; te lo dico per far capire la nostra buona fede. Poi chi ci crede ci crede, chi non ci crede non ci crede. Solo che con certi piloti è stato difficile onorare gli impegni presi. L’unico che ha dimostrato una serietà assoluta in questo senso è stato Trey Canard: un anno non riuscì a essere presente per motivi personali e non solo ci restituì tutti i soldi, ma ci rimborsò anche dei biglietti dei voli che avevamo preso per lui".

Oltre a Canard quali sono stati i piloti che ti sono piaciuti di più?

"Tutti. A parte qualche nome di secondo piano o qualche promessa tipo Jason Lawrence; un grande talento, ma come persona è veramente ingestibile. I migliori ci hanno spesso fatto i complimenti e i più apprezzati, negli anni, sono stati quelli di McGrath e di Tomac. Un anno Eli ci disse che la pista gli era piaciuta e ci chiese di poter fare dei test il giorno dopo, in solitaria; così non liberammo il palazzetto per lui".

In questi anni sono cambiate le generazioni e anche l’approccio dei piloti. Perché una volta c’erano al via tutti i migliori americani e poi sempre meno?

"Il livello del Supercross USA è cresciuto. Così quello che per i piloti era un momento per raggranellare un po’ di soldi è diventato un momento per riposarsi; oppure per prendere tantissimi soldi. I piloti di secondo piano è inutile prenderli, mentre i top rider scelgono le gare a cui partecipare, ne fanno poche e si fanno pagare tanto. Gli ingaggi, da quando abbiamo iniziato a oggi, sono in proporzione 1 a 10. E pagarli tanto non sempre è sufficiente, perché devono trovare anche altre cose, come la pista che gli serve, la propria moto, ecc".

Chi è il pilota che ha chiesto l'ingaggio più alto?

"Non vorrei dirti la cifra, ma in generale Reed e Tomac sono stati i piloti che ci sono costati di più".

Cairoli e il freestyle

Abbiamo citato Cairoli. A Genova ha vinto ma, anni dopo, ha anche capito che l'SX non faceva per lui.

"C’è stata un'edizione in cui non si è trovato bene con la pista (2010). Ma era una gara in cui c’erano 4-5 piloti tosti e il tracciato era molto tecnico. Discutere Tony è impossibile e io neanche mi sogno di farlo, ma forse quella volta non arrivò preparato, per una serie di ragioni. Però, anche se doppiato, non si ritirò cercando scuse, rimase in pista fino alla fine e questa è una cosa importante da ricordare. La persona seria la vedi in quelle occasioni".

Parlavi di piste tecniche e spesso ci sono state. Perché le facevi?

"Per esaltare gli americani. Però man mano abbiamo cambiato strada, perché non era così giusto nei confronti degli europei che hanno la priorità verso il motocross e praticano l’SX in altro modo. Ma, ultimamente, grazie al nostro campionato di supercross e del campionato francese, sono cresciuti molto e sono più competitivi rispetto a tanti anni fa".

Una bella fetta di storia arriva anche dal freestyle.

"Noi siamo stati i primi a mettere il freestyle all’interno di una gara in Europa. All'epoca si chiamava Superjump. Siamo stati anche i primi a fare il backflip (2002), il doppio backflip (2007), il 360° (2004) e il frontflip (2011). Dopo un po’ abbiamo smesso di puntare sul freestyle, perché il livello raggiunto era altissimo e non bastava più fare lo show per valorizzarlo; bisognava andare talmente oltre che era meglio concentrarci sul supercross, facendo una gara all’altezza, lasciando da parte il freestyle che spesso ci condizionava anche la realizzazione della pista".

Negli anni, ci sono stati anche incidenti importanti.

"Uno molto grave fu quello di Nate Adams (2004). Gli chiedemmo di fare un ultimo salto, un ultimo backflip ma perse la moto e cadde in modo pesante, facendosi molto male. Fu una caduta strana, sul più bello. Poi ci fu l’incidente di Barcia (2014). Si toccò in aria con Pourcel e Tomac gli saltò addosso (qui il video); poteva finire male, invece Barcia si rialzò".

Invece hai dei ricordi divertenti al di fuori della pista?

"Ne sono successe tante che, purtroppo, spesso mi sono perso perché assorbito da mille altre cose. Posso raccontarti che dopo una serata, il meccanico di Reed si mangiò un pesciolino rosso vivo, che nuotava dentro un vaso messo sul tavolo della hospitality, solo per aver perso una scommessa. McGrath, poi, si tuffò in mare, nonostante facesse un freddo cane, sempre per onorare un patto. Altre non le ricordo. Ma ricordo le atmosfere e le sensazioni".

La gara della gente

Qualche rimpianto?

"No, anche non siamo sempre riusciti a fare un evento come lo avremmo voluto. Nonostante un buon pubblico e degli ottimi sponsor non era sempre facile far tornare i conti. Quindi non sempre abbiamo fatto quello che avevamo in mente, dovendo fare delle scelte, fermandoci al punto che ritenevamo giusto, senza strafare come potevano fare in altri posti come Bercy o Ginevra. Noi siamo stati la terza gara di supercross in Europa e gli americani, una volta tornati a casa, ne hanno sempre parlato bene; quando arrivavano lì non trovavano degli scappati di casa. Magari non avevamo la cravatta, ma nella sostanza eravamo molto professionali".

Hai dei ringraziamenti da fare?

"Sì. Voglio ringraziare tanto Genova perché ha dato delle emozioni enormi a tutti noi. La sentivamo nella pancia. E devo ringraziare il pubblico che ci ha seguito in questi anni. Era una soddisfazione vederli entrare e divertirsi. Pensa che c’era un gruppo di Bergamo che non mancava mai. Erano un centinaio e si portavano appresso una cassa da morto, piena di salumi, formaggi e birra. Una volta che li abbiamo conosciuti li aspettavamo e riservavamo loro un passaggio particolare, aiutandoli persino a portare la cassa da morto in cima alla tribuna. Questa cosa non l’ho mai detta a nessuno. Mi hanno anche spiegato perché lo facevano, ma non me lo ricordo più. Col tempo siamo diventati amici e lo stesso con altri. Quando hanno saputo che Genova non ci sarebbe più stata ho sentito un attaccamento e un dispiacere vero da tante persone. Quella gara non è mia ma della gente, appartiene a tutti quelli che l’hanno vissuta anno dopo anno".

Genova resterà indimenticabile.

"Erano sensazioni forti, che portavano i miei ragazzi a dare il 100%. Tutti quelli che hanno lavorato per quell’evento si sono sempre impegnati la massimo. E li ringrazio molto per questo. Quando abbiamo fatto la pista con le rampe che salivano al primo anello non abbiamo dormito per non so quanti giorni. Una volta, mentre rimettevamo a posto dopo una gara, mi sono buttato per terra su dei tnt e mi sono addormentato. In quel momento è passato il presidente della Fiera, mi ha svegliato e mi ha convocato nel suo ufficio per il giorno dopo. Quando sono andato, un po' preoccupato, mi ha messo sotto il naso il contratto per l’anno successivo, con uno sconto di 10.000 euro; solo per aver visto l’impegno che ci mettevamo. Quello che è successo in quel palazzetto non si può replicare; Genova è Genova. E "Niente è come esserci stati", come dici tu".

Questa è la storia. Fine.

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