Mario Ciaccia
30 June 2023

Filosofia delle cavalcate: a caccia del massimo divertimento in fuoristrada. Puntata 1

Dai tentativi acerbi dei primi eventi, alla goduria estrema del Leventino di Sostegno (BI). Un "percorso" di esperienze, oscillando tra il troppo difficile e il troppo facile fino a trovare la giusta via di mezzo. In pratica, è un trattato sul perché andare in moto in fuoristrada è così bello. Ma servono anni per capirlo

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Il Leventino di Sostegno (BI), ovvero la mia formula ideale di fuoristrada. Perché con questo termine si intende ciò che non è asfaltato, ovvero un milione di sfumature diverse riguardo a ciò che si può definire "strada".

Questo articolo è chiaramente incentrato sui miei gusti personali, ma il mio entusiasmo per la cavalcata Leventino potrebbe essere condivisibile da parecchi di voi. Vi spiego tutto, ma ci vorrà tempo. Al punto che dividerò questo "trattato" sulle cavalcate in due puntate. Come prima cosa, va capito perché uno si approccia al fuoristrada. Molto spesso la ragione sono le gare, ma io non le ho mai fatte. Semplicemente, leggendo Motociclismo a 15 anni ero affascinato dalle traversate di luoghi impervi e affascinanti da effettuare viaggiando su strade disastrate.

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Nel 1981 ho letto questo articolo di Motociclismo che parlava dell'allucinante salita al Monte Chaberton. Ci sono cose che avvengono senza spiegazioni. L'ho letto e m'è subito venuta voglia di andarci. Ma avevo 15 anni e nessuna moto...

Un'altra cosa che mi piaceva da impazzire erano i viaggi attraverso le Ande e l'Himalaya. Quelle odissee su strade fangose, strette, coi burroni, le frane, i camion bloccati, la gente che scende per capire come fare a proseguire...

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Ho trovato in rete questa foto che mostra in maniera egregia quanto ho appena espresso. Si vedono pure tre motociclisti che stanno cercando di passare, chi scendendo e chi salendo. 

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Beh, e poi - che lo dico a fare? - c'era ovviamente la passione per la Dakar e i viaggi africani in generale. E i primi anni era facile fare confusione tra le due cose...

Per cui appena ho comprato la prima moto mi sono subito messo a guidarla su e giù per sterrate alpine ed appenniniche.

Ho iniziato nel 1984 con una 125 da strada con i freni a tamburo che, in fuoristrada, andava davvero male ma, a giudicare dalla mia faccia, mi ci divertivo comunque tantissimo.

Una volta acquistata la prima enduro, l'idea era quella di usarla per fare giri turistici ultrapanoramici in posti meravigliosi, ma anche di allenarmi per fare la Dakar. La prima idea era quella di partecipare al campionato lombardo di motorally, ma costava troppo. Giravano però voci che parlavano di eventi non agonistici e poco costosi, ispirati a gare vere. Tipo il Raid Città di Arona, la Cavalcata delle Valli Orobiche, la Via del Sale di Carcheri e il Mototrip di Terni. Partecipando ad essi ho avuto modo di capire le vere difficoltà dei percorsi enduristici. Non avrei mai pensato che una moto non da trial potesse affrontare certe salite, ripide, scivolose, sassose, ricoperte di radici e gradini. Inoltre avevo visto dei filmati su una gara di moto spaventosa, la Gilles Lalay Classic, dove si vedeva gente stremata lottare contro ogni genere di difficoltà una "strada" potesse offrire: fiumi in piena da guadare, fangaie simili a sabbie mobili, pietraie bagnate ad aderenza zero, sterrate innevate, sentierini ripidissimi ricoperti da radici. Era talmente esaltante che mi sono buttato nel mondo delle cosiddette cavalcate, facendone di veramente difficili, specie quando pioveva o nevicava. Tipo la Valli Orobiche, o quella di Febbio, o la Motogelo. La cosa triste è che non scattavo foto, altrimenti la reflex si rovina. Non ho foto di quelle avventure, ma me le ricordo bene. Mi piaceva il senso di solidarietà che provavo quando io e i miei amici ci piantavamo sui vari ostacoli e dovevamo aiutarci a vicenda per uscirne. Poiché eravamo tutti di Milano e non usavamo carrelli o furgoni, dovendo raggiungere le sedi di queste cavalcate direttamente in sella e con la tenda legata dietro per risparmiare sull'albergo, usavamo tutti dual sport: io una Suzuki DR350S, mio fratello una Cagiva 350 T4R e una Yamaha TT350, i miei amici generalmente Honda XR250/400/600R, Yamaha TT600 nelle varie versioni e Suzuki DR600S. Le bicilindriche tipo Honda Africa Twin, BMW R 80 G/S, Yamaha Super Ténéré e Cagiva Elefant erano bandite. Non erano assolutamente adatte ad affrontare quei percorsi. La maggior parte delle persone affrontava quelle cavalcate con 250 a due tempi corsaiole, ma ancora nutriva rispetto per chi, come noi, lo faceva con mono di compromesso.

Motociclismo FUORIstrada

Le cosa sono cambiate drasticamente nei primi anni Duemila, quando è esploso uno dei tanti boom del fuoristrada, caratterizzato dall'arrivo di una nuova generazione di moto da enduro: monocilindriche 4T leggerissime, con motori potenti e con poco olio, dotati della stessa ciclistica delle 250 2T e con prestazioni molto simili. Queste moto hanno traghettato nel mondo dell'enduro racing tanta gente che aveva paura dei due tempi, per sviariati motivi (erogazioni brusche, vibrazioni, miscela da fare, grippaggi) ma che era stufa di dover domare moto da oltre 130 kg di peso. In coincidenza con tale boom è nata la rivista FUORIstrada, io sono entrato a farne parte e uno dei miei compiti è stato quello di fare una cavalcata al mese. E nel 2003 c'erano soltanto cavalcate tecniche per monocilindriche racing. La filosofia di base di tali eventi, che non erano competitivi, era questa: gli organizzatori di gare di enduro tiravano fuori un anello di 100 km mettendo insieme i passaggi più tosti della zona. Il percorso ruotava intorno al paese di partenza. In generale questi eventi si svolgevano in autunno, inverno e primavera, con qualsiasi situazione metereologica. Essendo il principio di tali eventi quello di sputare sangue, se pioveva era ancora meglio. In generale i primi che partivano erano bravissimi e facevano tutto l'anello in tre orette, senza fermarsi. Tutti gli altri si piantavano sul primo ostacolo e si creavano cataste di uomini e mezzi, i famosi tappi, dove si stava fermi anche per un'ora di fila. Quelli dietro si precipitavano ad aiutare quelli davanti, c'era tanta solidarietà, era davvero bello. Io mi sono buttato a pesce con entusiasmo a seguire questi eventi, spaziando tra Valle d'Aosta e Carnia fino alla Sicilia, senza risparmiare tutto il Centro Italia e la Sardegna. Questa volta avevo la reflex - anzi, due - e il mio scopo era raccontare l'evento dal punto di vista del partecipante. Per cui mi facevo il percorso senza tagliarne un solo pezzo, fotografando tutto: il paesaggio, i pezzi difficili, i tappi, i ristori, le facce della gente. Volevo che, nei miei articoli, trasparisse l'anima dell'evento, che spesso era unica, perché dipendeva dal tipo di terreno, dal paesaggio, dall'esperienza di chi organizzava, dal suo sadismo, dalla goliardia e dall'abilità dei cuochi addetti ai ristori. Ce n'era una, a Pistoia, che offriva vino a coloro che fossero riusciti a superare una sassaia viscida in salita...

In tutto ho partecipato a una settantina di cavalcate tecniche, fotografandole tutte, ma quegli scatti sono finiti, per buona parte, o dentro scatoloni di diapositive che non avrò mai il coraggio di sistemare, o in CD che si sono smagnetizzati. Ho pochissime foto di quegli eventi e, ovviamente, la cosa che più mi piaceva fotografare erano i pezzi cosiddetti hard. Quelli dove la gente si piantava e si creavano i tappi.

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Rimnjak, in Croazia: nessuno si aspettava che quella pozzanghera fosse così profonda.

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Motognoccata del 2006 a Gualdo Tadino (PG). Quelli bravi (pochi) sono passati in sella. Tutti gli altri salgono solo con la corda... In primo piano Andrea Perfetti, che ai tempi non lavorava ancora per Moto.It.

I tappi in salita sono un superclassico delle cavalcate, ma ci sono anche discese dove impera il terrore.

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Buzet (Croazia). Panico puro: l'amico Claudietto, che è comunque molto bravo, di fronte a questa discesa non se la sente di restare in sella. Scende, ma la moto gli scappa di mano e, in perfetto equilibrio, scenderà a valle a 240 km/h, colpendo la mia fotocamera.

Inizialmente trovavo queste cavalcate e questi ostacoli esilaranti. C'era molta solidarietà. Si è sempre detto che i tappi fanno parte della goliardia delle cavalcate. In effetti, le prime volte faceva tanto "Gilles Lalay Classic". Ma col tempo mi sono venuti a noia: in fondo, il bello della moto è guidarla, non stare fermi in coda. Poi il pubblico è cambiato. Con il boom dell'enduro e delle quattro tempi da gara sono aumentate le cavalcate e i partecipanti. Molti erano smanettoni puri, intendendo con tale termine coloro a cui interessa soltanto correre a manetta e che si mostrano scocciati se si trovano dietro uno più lento. Presentarsi a tali eventi con la mia Suzuki DR-Z400 significava venire insultato, perché non era abbastanza racing. Molti non capivano che erano eventi non competitivi e correvano come pazzi, facendo sorpassi sporchi. Gli scarichi liberi spaccavano i timpani. La maggior parte dei partecipanti non era in grado di passare i vari ostacoli senza piantarsi e così si passavano ore in coda ai tappi. In più, la mia tecnica non migliorava. Sugli ostacoli mi piantavo sempre, anche quando mi facevo dare una enduro specialistica.

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Un classico erano i salitoni viscidi, dove spesso cadevo perché la moto non riusciva a salire e io non riuscivo a frenare il posteriore in tempo. Qui siamo in Valsamoggia.

Insomma, io mi divertivo a fare le cavalcate, ma erano sempre troppo dure per il mio livello e per quello di tantissimi altri. C'era una sorta di gara a chi organizzava l'evento più tosto e impegnativo. Del resto, con le mono ci si annoiava a fare le classiche sterratone bianche, per cui era giusto proporre percorsi complicati, ma lo erano fin troppo... Del resto in quegli anni stava esplodendo la moda dell'enduro estremo, con eroi che arrivavano dal trial, come il polacco Tadeusz Błażusiak.

Ho seguito dal vivo l'Erzberg per tre volte. La prima volta fu pazzesco, incredibile, esaltante. Poi, prendendoci l'abitudine, l'ho trovato eccessivo.

Vedete quella foto? I concorrenti, per superare quella "salita", impiegavano un'eternità. Ci provavano in sella, oppure spingendo, o ancora lanciando la moto (le stai in piedi di fianco, dai gas a manetta, molli la frizione e quella se ne sale da sola oltre l'ostacolo, autodistruggendosi). Erano stanchissimi, si levavano il casco, si spogliavano, raggiungevano a piedi quelli che li precedevano per chiedere consigli. Visto la prima volta aveva un grande fascino. Ma era noioso, visto più volte. Ed era piuttosto contronatura, perché questo non era più andare in moto, ma spingerla. So che sto bestemmiando e che i cultori dell'estremo saranno inorriditi, ma ho sempre trovato più genuina la Gilles Lalay Classic. Certo, c'era il Corvo Morto finale che era una salita impossibile, ma avveniva di notte, in un delirio mistico di spettatori che spingevano in massa, aveva un fascino bestiale.
Un'altra cosa che non mi piaceva delle cavalcate, oltre a questa ricerca esasperata del passaggio estremo, è che si stava sempre nella stessa zona, per cui non sembravano un viaggio.
Inizialmente le enduro specialistiche a quattro tempi mi piacevano, perché c'era una certa varietà a livello di scelte tecniche. C'erano le KTM sempre più sottili, le Aprilia bicilindriche, le Husaberg con motore inclinato in avanti, le BMW con la frizione calettata nell'albero motore e il pignone coassiale al perno del forcellone, le Husqvarna con la testa rossa, le "pirenaiche" GASGAS e Sherco pioniere dell'iniezione, le TM con miliardi di pezzi di motore e ciclistica in alluminio fatti in casa, le Honda con il telaio perimetrale in alluminio e la testa Unicam, le Yamaha con le 5 valvole, le Vertemati e le VOR con la leva dell'avviamento in avanti e la distribuzione a ingranaggi, le Beta con il telaietto reggisella in plastica. Ma poi questa varietà tecnica è venuta meno. Oggi quasi tutte le moto che ho citato sono scomparse. KTM s'è mangiata Husaberg, Husqvarna e GASGAS e produce moto tutte uguali con marchi diversi. Le 4T sono cadute in disgrazia. Ormai il mercato è dominato dalle 300 2T, tutte molto simili a livello tecnico. Estremamente efficienti, per carità. Ma troppo uguali tra loro. Che due palle. Il mio cuore ha continuato a battere per le vecchie dual sport. Inoltre, il mio rifiuto a usare carrelli e furgoni faceva sì che io mandassi arrosto i motori dei miei monocilindrici. Non era un caso: io e i miei amici abbiamo appurato che usare i mono da 350/650 cc continuamente in autostrada, a velocità codice di 130 km/h, li rovinava. Intorno ai 50.000 km si mettevano a bere olio e verso i 60.000 succedevano cose: grippaggi, sbiellate, distacchi dei riporti di cementificazione... Per questo ci siamo rassegnati ad affiancare ai mono anche dei bicilindrici.

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Inizialmente le bicilindriche ci affascinavano soltanto perché venivano usate alla Dakar e le trovavamo appetibili perché i loro motori duravano molto più dei monocilindrici.

Il mio acquisto dell'Africona è coinciso con un boom delle vecchie bicilindriche, cercate apposta per fare fuoristrada. Ma non c'erano eventi dedicati. Tuttavia, c'erano delle cavalcate scorrevoli che si sarebbero potute prestare e io decisi di partecipare a quella del Monferrato del 2005, proprio per fare un articolo della serie "Che effetto fa andare a una cavalcata con una bicilindrica?".

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La Monferrato si svolse con il bel tempo, su terreni secchi e io mi divertii un sacco, più che con la mono. Non ero l'unico con la bicilindrica, per esempio c'era l'Africona 650 che si vede qui sopra, ma comunque le "vaccone" si contavano sulle dita di una mano. 

Scrissi un articolo su FUORIstrada dicendo quanto fosse bello fare la Monferrato con il bicilindrico e questa cosa contribuì, nel 2006, ad avere un botto di iscritti su moto grosse per l'edizione successiva. Si capì che c'era tanta gente che non aspettava altro che venissero organizzati eventi dedicati espressamente alle bicilindriche. Il problema di quel 2006 fu che si svolse dopo copiose piogge, per cui il percorso era una marea di fango. Vennero così fuori i grossi limiti che le motone hanno su quei terreni: gomme non adatte, parafanghi bassi che bloccano le ruote, pesi enormi.

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Nel 2006 nacque una cavalcata molto interessante: la TSP di Pistoia, dove la sigla stava per Transappenninica. Si trattava di una proposta dedicata esplicitamente alle dual sport e non alle specialistiche e il percorso era scorrevole, ma non noioso. Ci si fiondarono i bicilindrici in massa. In foto Carlo Cianferoni, il fumettista di Curve & Tornanti, con la sua fantastica BMW.

Dopodiché partecipai a una notturna organizzata dal MC Africa Twin Italia sulle sterrate militari in alta quota della Val di Susa, terreni "commestibili" anche in caso di pioggia e mi resi conto del potenziale che un evento simile poteva avere se esteso anche ad altri modelli di maxienduro. In foto, una foratura a Bardonecchia.

Se ne rese conto anche Luigi Corrù, un appassionato di motine che creò la prima gara di enduro per motone. Non lo fece per soldi, era solo incuriosito da tutta questa gente che affermava di divertirsi a domare moto così pesanti e creò dal nulla una gara chiamata Sette Guadi, a Trescore Cremasco (CR), basata su un fettucciato a cronometro e su un anello da ripetere più volte, che guadava i canali per il lungo.

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Era il settembre del 2006. Si presentarono in 150, tutti su maxienduro e la cosa si rivelò interessantissima per vari motivi. Intanto perché guadare i canali per lungo era impressionante, sia dalla sella, sia da spettatori. 

Il mondo delle bicilindriche mi piaceva molto perché, avendo a che fare con moto "sbagliate", i loro piloti erano di mentalità piuttosto elastica. Un classico dei giri con i monocilindrici è questo: si arriva a un pezzo difficile e tutti sperano di essere gli unici a passare, mentre gli altri soccombono. E devono arrangiarsi da soli. M'è successo un sacco di volte e trovavo questa pratica odiosa. Al contrario, con la bicilindrica spesso non ce la fai da solo, per cui ai pezzi difficili si arriva tutti insieme e ci si presta mutua assistenza: è bellissimo! Penso che sia molto probabile che Corrado Capra, partecipando a quell'evento, si sia reso conto anche lui del potenziale che avrebbero potuto avere cavalcate espressamente concepite per le bicilindriche.

Però la prima idea della Hardalpitour, l'evento destinato a rivoluzionare il mondo degli eventi per maxienduro, gli è venuta più come sfida che come business: "Quanto tempo ci vorrebbe per fare tutte le mulattiere militari delle Alpi Occidentali da sud a nord"? 

550 km e una ventina d'ore di fila, questo fu il verdetto della prima edizione. Ne ho parlato abbondantemente qui: clicca.

La Hardalpitour è stata un successo enorme. Una formula che s'era vista soltanto con la Via del Sale di Carcheri (che, però, era più tecnica): traversate lunghissime, valle dopo valle, di centinaia di km, su sterrate scorrevoli. Lo scopo non era sfidare i passaggi estremi delle gare di enduro, ma viaggiare attraverso paesaggi bellissimi. Il fatto che prevedesse una fase di guida notturna era secondario. Gli eventi che sono arrivati in seguito prevedevano le notturne, oppure no, ma la formula era quella: tanti km, tante tappe, tanti paesaggi. Transitalia Marathon, Valle Sabbia Classic e Audax Valli Bresciane, Queen Trophy, Harditaroad Trento-Trieste, Anabasi Boon, Italian Challenge, Sterrare è Umano, 1000 Sassi, Hat Pavia-Sanremo, Elcito, Le Bianche dei Castelli sono soltanto alcune. La moda ha preso così tanto piede che la FMI ha istituito la categoria Adventouring per identificare e regolamentare tali manifestazioni. Con regole che non conoscono tutti, come quella che, se partecipi con una moto da meno di 150 kg e ti fai male, non c'è la copertura assicurativa. Alcune non sono delle maratone, hanno la lunghezza di una cavalcata tecnica, ma con percorsi scorrevoli, a portata di moto grosse o d'epoca, come la Morenica, l'Eroica e la Zuk Marathon.

Ciascuna di queste maratone ha la sua filosofia.

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La Hardalpitour Sanremo-Sestriere è la grande traversata alpina da sud a nord, su sterrate militari ed è nata come prova di resistenza estrema, dove non si dorme mai. In teoria. Quest'anno ci sarà, tra le altre, una versione speciale da 1.000 km, per festeggiare i 15 anni.

Poi ci sono quelle che vengono dichiarate per bicilindriche, ma il percorso è tosto, per cui sono più adatte alle dual sport. Si tratta di una sfumatura, per cui in effetti, se sei esperto, con la bicilindrica fai tutto, ma non è il percorso scorrevole che potresti aspettarti.

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Il Queen Trophy si sviluppa interamente in Centro Italia e offre scorci paesaggistici tra i più belli. Ha tratti in comune con la Transitalia Marathon, ma il percorso è più tecnico.

Ed è lì che sto andando a parare. Al di là del fatto che io sia più o meno bravo, il concetto della cavalcata per specialistiche non mi piace. Ovvero, il guidare per qualche km, sapendo che arriverà presto un ostacolo davvero tosto, dove troverò un tappo, dove starò fermo mezz'ora in attesa, dove mi pianterò, dove quelli dietro mi odieranno, dove non troverò la cosa divertente. Insisto, sono mie opinioni personali. Come ho detto, in situazioni come queste ci sono passato centinaia di volte e mi sono stufato. Allo stesso tempo, una cavalcata per bicilindriche mi piace perché guido sereno senza interruzioni ma, se me la fai troppo scorrevole, mi stufo pure lì. Ciascuno di noi ha una sua tipologia di percorso fuoristrada ideale, così come ha dei fondi che non gli piacciono. Ebbene, tra quelli che mi piacciono di meno ci sono gli sterrati sassosi, che rappresentano l'immensa maggioranza dei percorsi tipici per bicilindriche.

Sterrati di questo genere, con fondo duro, sassi e tornanti strettissimi, rappresentano l'essenza delle cavalcate per bicilindriche. E io mi ci rompo le palle!

Ma quindi che cavolo voglio? Le cavalcate tecniche sono troppo tecniche, quelle adventouring lo sono troppo poco, cosa voglio? Ho capito che la mia formula ideale è questa: "Cavalcata che l'organizzatore pensa che sia adatta alle bicilindriche, ma non sa quello che sta facendo, per cui ci vuole un mono". Un evento nato sbagliato in questi termini non sarà mai troppo tecnico per una dual sport monocilindrica, ma è troppo difficile e faticoso per una bi, nel caso sia io a guidarla. E, fatto col mono, è il mio percorso ideale: tecnico, divertente ma non difficile. Il Leventino, per quel che riguarda i miei gusti, rappresenta la tesi di laurea in divertimento in fuoristrada, solo che ormai ho scritto troppo: per questo riprenderò nella seconda puntata.

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