La straordinaria storia del Rally del Qatar

Il nostro Francesco Catanese ha partecipato alla Qatar International Baja 2023 assieme alla "Dakar band", cioè il gruppo dei rallisti italiani con cui non ci si annoia mai... Tra moto arrivate nel pieno della notte e beduini che fanno l'autostop in autostrada, l'avventura è imperdibile!

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Credit foto: Rally Zone

Immaginate di essere bloccati nel traffico sull’autostrada Milano-Venezia in un freddo giorno di febbraio. Siete stanchi, la giornata di lavoro è stata lunga e non vedete l’ora di tornare a casa ma mancano ancora 200 km. Cosa può mai capitare di bello in uno scenario di questo tipo? Difficile dirlo, probabilmente il dissolvimento istantaneo della coda. C’è una cosa migliore: la telefonata di Cesare Zacchetti. Zac è una specie di antidepressivo, non importa quanto sia andata storta la giornata, lui ha il potere metterti di buon umore sempre. La gente lo conosce per il suo perenne sorriso e si chiede se lui sia veramente così. La risposta è sì, Zac è sempre allegro e la sua allegria ti contagia. È lui che ti trascina, ti incoraggia, ti fa tornare il buonumore. In tanti anni di gare non l’ho mai visto lamentarsi per una tappa dura, trasferimenti gelati, pioggia o cadute. Anche nei disastri riesce ad essere ironico e divertente. Inoltre, in moto è terribilmente bravo, sempre costante, sbaglia pochissimo, è il migliore tra noi “amatori”. Perché in realtà Zac non è un amatore, anche se non lo fa di professione lui in fondo è un pilota vero, si allena come un pro e ci mette l’anima. Lavora nel campo dell’abbigliamento e ha un negozio a Torino, ma il suo posto non è lì. Il suo habitat è il bivacco “malle” di una qualunque gara, preferibilmente la Dakar. Fa tutto da solo, non gli serve il meccanico, gli piace arrangiarsi e la sua simpatia attrae amicizie e sponsor. 4 Dakar consecutive in Arabia Saudita nell’eroica categoria “Original by Motul”, 4 volte finisher spesso come migliore degli italiani. Zac (in foto sotto) è l’emblema del privato alla Dakar, in un certo senso possiamo dire che è l’erede di Beppe Gualini, l’uomo avventura degli anni ’80.

Nella telefonata dell’ingorgo mi avvisa che c’è una Baja in Qatar dove ha sentito dire che a chi partecipa vengono rimborsate le spese. Ovviamente fatico a crederlo, se c’è un ambiente dove la parola “gratis” è completamente assente questo è il mondo dei rally. Faccio un paio di telefonate tra i miei contatti e scopro con sorpresa che è proprio così. A chi decide di iscriversi alla QATAR International Baja 2023 (e supera le verifiche tecniche) la Federazione Motociclistica del Qatar rimborsa tutte le spese: trasporto moto A/R, volo A/R, Hotel e iscrizione gara. Solo l’iscrizione gara (1.000 dollari) non viene rimborsata al 100%. Ci mancherebbe direte voi, qualcosa bisogna pur riconoscere a questi signori. Viene rimborsata al 120%. Lo so, faccio ancora fatica a crederlo io che la gara l’ho fatta, figuriamoci voi. Ma che tipo di gara è questa? Una Baja che dura solo 2 giorni, circa 800 km tra speciali e trasferimenti. Andrebbe bene anche una moto da enduro con un serbatoio da 12-13 litri. Però si corre tra le dune, i consumi possono essere elevati, forse sarebbe meglio una moto stile Dakar. Certo che andare dall’altra parte del mondo per fare una gara di 2 giorni… Io una moto pronta per la Dakar ce l’ho, la Honda 450 Rally con la quale ho corso l’edizione 2022. In realtà ero iscritto anche all’edizione 2023, ma una brutta frattura della clavicola in allenamento mi ha costretto a rinunciare. Quindi sono a cavallo, moto pronta, tutto gratis, cos’altro posso chiedere dalla vita? Adesso capite perché la telefonata di Zacchetti mi ha cambiato la giornata! Nel giorno stabilito vado a Genova a spedire la moto, una cassa e la borsa con l’abbigliamento da gara. Non ho meccanico, non ho gomme di scorta, tanto deve tutto durare solo 2 giorni e io sono un ottimista per natura.

Mi piacciono le Baja, senza lo stress di dover trovare la strada con il roadbook. Il percorso è segnato da grandi frecce come nelle gare di enduro, bisogna solo pensare a dare gas e stare attenti agli ostacoli per terra. Una volta ho fatto la Baja Aragon in Spagna e mi sono divertito un sacco, poi ho rotto il mozzo della ruota posteriore in un deserto tipo Far West e mi sono divertito meno, anche perché non avevo una ruota di scorta e sono tornato a casa. Mi sono però divertito lo stesso. Certo che mettere frecce nel deserto tra le dune per delimitare 800 km di percorso deve essere una bella faticaccia per gli organizzatori, chi è il pazzo che lo farebbe? Nessuno, perché poi ho scoperto che la Baja Qatar è una baja che è molto rally e poco baja. Anzi, non è per niente baja, è solo rally. Ci vogliono road book e strumento satellitare Stella per navigare tra i vari waypoints, esattamente come alla Dakar. Manuel Lucchese e Maurizio Dominella, navigatori auto professionisti che hanno fatto più volte questa gara, ci dicono che è uno dei rally con la navigazione più estrema che abbiano mai corso, quasi impossibile non perdersi. Ci consigliano di non andare a manetta e di seguire il roadbook al millimetro perché perdersi è un attimo. Ma allora perché la chiamano Baja? Non lo so, tanto ci pagano tutto e per quel che mi riguarda lo possono chiamare anche Festival di Sanremo, l’importante per me è andare in moto. Non mi interessa dove e come, a me piace attraversare deserti e vivere l’atmosfera dei rally con gli amici. E di amici ce ne sono, perché oltre a Zacchetti è della partita Ottavio Missoni fresco di una Dakar 2023 brillantemente conclusa, Alberto Bertoldi, Elio Aglioni reduce da un infortunio nel fare motocross dove si è rotto un sacco di costole e la clavicola in più punti. C’è anche Paolo Lucci, il nostro miglior rallysta “da deserto” che era nei paraggi perché si era da poco concluso l'Abu Dhabi Desert Challenge, la 2a prova del World Rally-Raid Championship (la 1^ prova è stata la Dakar 2023) dove tra l’altro è in testa al Mondiale Rally 2.

Arriviamo tutti a Doha (la capitale) un paio di giorni prima della partenza perché ci sono da fare le verifiche tecniche ed amministrative più un prologo che deciderà l’ordine di partenza.

Ognuno di noi ha le verifiche fissate a un certo orario il cui rispetto è categorico, per cui andiamo al paddock per prendere le nostre cose e cominciare a preparare tutto. Il paddock è in un parcheggio di uno degli stadi nati per il mondiale di calcio che si è svolto nel 2022, a due passi dal circuito di Losail a una ventina di chilometri da Doha. Tutto sembra fin troppo perfetto, ancora non lo sappiamo, ma le cose stanno per prendere una brutta piega. I rally si possono definire come il “regno degli imprevisti”. È una specie di fabbrica che produce problemi di qualunque natura: meccanica, fisica, psicologica, finanziaria e logistica. Perché fare i rally allora? Spesso me lo chiedo anche io. Forse mi piace mettermi alla prova. Mi sento realizzato quando riesco a terminare una tappa, riesco a schivare le insidie, ritrovo la strada dopo che mi sono perso. Forse mi piace perché nei rally cade qualunque maschera, quelle che indossiamo quando siamo in società. Nei rally sei solo tu, la moto e il deserto che hai davanti. Non ci sono scuse, sei solo con te stesso che spesso è il tuo nemico più grande. In un certo senso impari a conoscerti veramente e soprattutto impari ad accettare i tuoi limiti. Poi si vedono posti pazzeschi, si respirano altre culture, si attraversano altri mondi e alla fine di ogni tappa ci si trova tutti insieme a sistemare le moto e ci si racconta le varie (dis)avventure che sono capitate. Fare i rally fa bene alla mente, ma anche al corpo, visto che ci si asciuga un bel po’. Ma quindi qual è il problema? Arrivati al paddock non c’è traccia delle nostre moto, casse e borse con dentro tutto. Le verifiche sono già iniziate e i vari team sono belli pronti. Tutti tranne noi che non sappiamo cosa fare perché non abbiamo niente.

Contattiamo la persona che doveva essere già lì con il nostro container e ci dice che è bloccato con il camion in frontiera (Arabia Saudita-Qatar) per controlli documentali e appena risolve arriva al paddock distante circa 250 km. Chissà per quale motivo il container con la nostra roba è stato inviato a Jeddah e non a Dubai, porto molto più vicino.

Ci dirigiamo in direzione gara per far presente il problema e si dimostrano tutti molto amichevoli dicendo di non preoccuparci perché loro vogliono assolutamente vedere gli italiani alla partenza della gara e quindi ci avrebbero aspettato.

La cosa ci rincuora, arrivare fin lì e non correre sarebbe una beffa. Visto che non possiamo fare nulla, nell’attesa facciamo i turisti e giriamo un po’ per la città, il clima è ideale, una trentina di gradi per niente umidi. Tutto è estremamente pulito e ordinato, ricorda molto Dubai. Si fa pomeriggio ma delle moto non c’è l’ombra. Si fa sera e non si fa vedere nessuno. Telefoniamo nuovamente al trasportatore e ci dice che è ancora bloccato. Nel frattempo il direttore di gara, non vedendoci più arrivare alle verifiche ci contatta dicendo che per le verifiche abbiamo tempo dalle 7:00 alle 8:00 del giorno dopo, poi saremo esclusi dalla gara perché sarebbero iniziate le verifiche delle auto (SSV). Al di là di tutto si tratta di una prova della coppa del mondo Baja, il rispetto dei regolamenti è tassativo. Il disastro si sta per compiere, non solo rischiamo di non correre ma anche di rimetterci i soldi di iscrizione, voli, ecc. Il rimborso è infatti previsto solo se si superano le verifiche tecniche. Andiamo a cena e poi torniamo in albergo, il trasportatore ci dice che alla frontiera hanno trovato problemi assicurativi. Quando intuiamo che la faccenda sta prendendo pieghe economiche di tipo doganale la disperazione comincia a farsi strada e io vado a dormire nella mia stanza perché ne ho abbastanza, negli ultimi tempi mi saltano tutte le gare. Verso le 2 di notte la svolta. Sento battere forte alla porta della mia camera, è Alberto Bertoldi che bussa con le sue manine delicate. Mi dice che il container è appena arrivato e dobbiamo volare a sistemare le nostre cose. Mezzi stravolti ci dirigiamo al paddock e nella notte cominciamo a preparare tutto, montiamo lo Stella, facciamo i collegamenti elettrici, risolviamo gli immancabili problemini tecnici dandoci la mano l’un l’altro.

Sono arrivate!

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Può sembrare una roba terribile di quelle che ti fanno esclamare “manco se mi pagano…” eppure questa situazione che si è venuta a creare è l’essenza dei rally. Puoi allenarti quanto vuoi, pianificare ogni cosa fino al dettaglio più piccolo, ma nei rally certe problematiche si generano sempre e comunque. La soddisfazione di “avercela fatta” in qualche modo è Il premio più grande. Per questo a noi amatori la classifica interessa fino ad un certo punto. Già riuscire a partire è complicato, figuratevi tagliare il traguardo! Dopo aver passato la notte a sistemare le nostre moto, freschi e riposati ci dirigiamo alle verifiche tecniche di primo mattino. Tutto fila liscio e possiamo mettere le moto in parco chiuso. Nel pomeriggio ci sarà il prologo, un percorso di 10 km per prendere confidenza con gli strumenti e il terreno che troveremo. Una prova semplice, ma che ci fa capire immediatamente quali problemi incontreremo nelle 2 tappe che ci aspettano. Il terreno è infatti piatto e duro, molto scivoloso, con mancanza di riferimenti. Comincio a capire perché Lucchese e Dominella mi avevano detto di stare attento al roadbook. Sbagli una nota e non sai più dove ti trovi al punto che è anche difficile tornare da dove si è venuti.

Un po' terra, un po' sabbia

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È finalmente il giorno della partenza. Una cinquantina i piloti moto al via. La tappa prevede 70 km di trasferimento, 250 km di speciale e altri 70 km di trasferimento per tornare al bivacco. Uno dei momenti più belli delle gare è quando alla partenza il commissario ti consegna la tabella, la infili in tasca e ti dà il via. Quando metti la prima e parti lasci tutto alle spalle: gli allenamenti, i preparativi, il viaggio, tutti i problemi. Ora sei solo tu, la tua moto e il deserto che ti aspetta. Il tuo più grande alleato ce l’hai davanti agli occhi ed è il roadbook. La missione è una sola: finire la tappa senza fare troppi errori, tassativamente vietato cadere. I km del trasferimento scorrono, non fa troppo caldo e tutto sembra ok. Arrivo al via della speciale e trovo Zacchetti con il suo smagliante sorriso. Glielo si legge negli occhi che è esattamente dove vuole essere e sta facendo esattamente la cosa che ama fare. Come sempre Zac mi dà la carica e quindi al via della speciale parto a manetta, al diavolo gli schemi e l’eccessiva prudenza. È più di un anno che non galoppo nel deserto ed è ben diverso che fare enduro. Gli ostacoli arrivano troppo velocemente, li vedi all’ultimo. Bisogna riabituarsi, resettare il cervello. È quindi fondamentale cercare di andare tranquilli fino a quando non ci si abitua a codificare i vari ostacoli, se no si rischia grosso. Una volta prese le misure con la velocità e il terreno allora si può aprire il gas cercando quel delicato equilibrio tra sicurezza, velocità e navigazione. Quando si raggiunge questo equilibrio è un po’ come trovare il famoso Punto G. Lo chiameremo quindi Punto R (Rally). Come detto il terreno in Qatar, almeno quello che ho visto io, non è il massimo. Siamo lontani dai bellissimi canyon dell’Arabia Saudita. Siamo lontanissimi dagli epici scenari egiziani del Rally dei Faraoni (il più bel deserto in cui ho corso). Qui sembra di essere sulla Luna, precisamente in uno dei mari lunari. Il terreno è piatto, duro, a volte pietroso a volte un po’ più sabbioso. Sembra esattamente il terreno che si trova in un qualsiasi cantiere italiano dove stanno costruendo case. In più questi piattoni sono solcati da una miriade di piste più o meno parallele che poi si aprono in direzioni diversissime. Se il roadbook mi dice che ad un certo punto troverò una certa pista e davanti a me ce ne sono tre che vanno in direzioni diverse, quale pista prendo? Ovviamente sarà quella sbagliata, ed ecco che quel punto G, anzi R, è bello che svanito. È però comparso il punto C, quello che finisce con “glione”.

Aglioni, quello della AGIF

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Mentre cerco me stesso in un desertaccio labirintico vedo in lontananza un motociclista, lo seguo e riconosco subito la guida stilosa di un crossista, è il mio amico Elio Aglioni. Elio (per gli amici He) è un simpaticissimo dentista di Milano, sulla moto ha in bella vista l’adesivo del suo Team che si chiama “AGIF AL AVIV” e ho detto tutto. L’ho conosciuto qualche anno fa in un rally in Sardegna dove si era dimenticato di prenotare la camera dell’Hotel. Le stanze erano tutte occupate, lui non sapeva come fare e mi ha chiesto se potevo condividere la mia stanza con lui. Mi sembrava brutto dire di no, anche se io sono poco socievole con chi non conosco. Ma siamo andati subito d’accordo perché la sua età cerebrale è circa 15 anni, io vado per i 14 e quindi eravamo in perfetta sintonia. Ci siamo poi rivisti un paio di mesi dopo alla Dakar, ed era stra-carico alla partenza della prima tappa. Arrivati in fondo lo vedo la sera al bivacco con la faccia un po’ strana e mi dice: "Cata, io mi sono già rotto le palle, torno a casa”. E il mitico lo ha fatto davvero!

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La mia tappa continua, vado via tranquillo perché la navigazione è un delirio e a ogni nota ho un dubbio sul dove andare. A un certo punto mi incontro in mezzo al deserto con Ottavio Missioni, sbucato chissà da dove. Incontrare casualmente piloti amici nei deserti è una delle cose più belle, stare troppo da soli fa male. Ottavio poi è un ragazzo fantastico, nella vita fa il manager dell’azienda di famiglia nel campo della moda ed è una delle persone con il miglior carattere che conosco. Non l’ho mai visto arrabbiato e ha un modo di esprimersi elegante. La cosa che colpisce è che non dice quasi mai parolacce, quando gli scappano sono sempre “educate”. Abbiamo fatto diverse gare insieme negli anni e abbiamo scoperto di avere praticamente lo stesso passo. Sarà per il fatto che siamo alti uguali? Otto ha deciso di venire a fare la gara con la sua moto da enduro, una Sherco 450, ma vista l’autonomia insufficiente ha deciso di aggiungere un serbatoio supplementare posteriore.

Ottavio, stile e simpatia

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Saggia decisione, ma sapete quanti litri conteneva il serbatoio aggiuntivo in alluminio? Due! Quindi la sua moto aveva in totale la bellezza di circa 11,7 litri, l’ideale per girare nei deserti! A metà tappa c’è una neutralizzazione di 20' per fare un rifornimento, il problema sorge se uno fa troppi km per ritrovare la strada quando si perde. Decidiamo quindi di andare via insieme, così nel caso fosse rimasto senza benzina ci sarei stato io con la mia moto che invece di litri ne ha 30, anche troppi per una gara di questo tipo. Oltre ad essere elegante nel portamento, e non poteva essere altrimenti visto il cognome che porta, Ottavio lo è anche nella guida, molto fluida e pulita ma comunque veloce. Tra l’altro è bravo anche a navigare: a un certo punto abbiamo perso un waypoint e non sapevamo come trovarlo perché in quel deserto piatto non ci sono riferimenti. Abbiamo cominciato ad andare a destra e sinistra seguendo tutte le piste che c’erano sperando che apparisse la maledetta freccia sullo strumento (segno che sei entrato nel raggio di 800 m dal waypoint da prendere e la freccia sullo Stella ti guida verso il punto; una volta validato la freccia si spegne per ricomparire ad 800 m dal waypoint successivo). Sono cominciati a spuntare da tutte le parti piloti persi alla ricerca del waypoint, intanto il tempo passava. Dopo mezz’ora Ottavio ha una intuizione, torna indietro qualche km, prende una strada quasi invisibile e finalmente la freccia sullo Stella si accende, siamo di nuovo sulla rotta giusta. Arriviamo quindi alla fine della speciale e a 10 metri dal traguardo la moto di Ottavio si spegne. È rimasto a secco di benzina per i troppi km in più fatti. Il trasferimento di rientro al bivacco continuiamo a farlo insieme, dobbiamo cercare un benzinaio (stranamente da queste parti non ce ne sono molti) e, soprattutto, un posto dove mangiare qualcosa. Con un po’ di fortuna troviamo un Mc Donald’s, una garanzia per chi come me non sopporta le spezie arabe tipo il cumino. Dopo aver fatto benzina e mangiato riprendiamo la strada verso il circuito di Losail dove c’è il nostro bivacco.

Il beduino e l'autostop

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A un certo punto vedo un beduino a bordo strada, anzi, bordo autostrada visto il numero di corsie. Cammina trascinando un trolley a rotelle in una mano e alcune buste di plastica bianca tutte piene nell’altra. Immaginate di essere sull’A1 e in corsia di emergenza c’è uno, in sandali, che gira come se fosse al Gate di un aeroporto. Rallento per guardarlo un po’ stupefatto e lui mi fa un segno tipo autostop. Mi piacciono le idee malsane, mi fanno sentire giovane. Quindi mi fermo e gli faccio cenno di montare dietro sulla moto. Gli parlo direttamente in italiano, tanto io l’arabo non lo so, lui l’inglese lo parla zero, inutile far troppa fatica. In qualche modo ci capiamo. Metto il suo trolley sul serbatoio davanti della mia Honda 450 in modo che appoggi sul mio busto. Il tizio è dietro con le gambe a penzoloni e tiene le buste bianche con una mano. Partiamo e gli chiedo dove sta andando, non capisce quello che dico e io non capisco quello che dice. Benissimo, l’importante è andare avanti. Ci capiamo male anche perché io indosso un casco, lui no, ha una kefiah in testa (il classico copricapo arabo) che con il vento comincia a sciogliersi e a svolazzare. Ho molta paura che da un momento all’altro la stoffa si attorcigli sulla ruota o finisca nella corona decapitando il mio passeggero beduino. Tra l’altro vedo che si appoggia con il sandalo destro sul collettore di scarico, non va bene, e se gli prende fuoco il piede? Gli afferro le gambe le metto dritte sulle mie ginocchia. Da dietro Missoni mi urla qualcosa, dice che le buste bianche con dentro la roba del tizio si stanno sciogliendo perché toccano la marmitta. Allora mi fermo e comincio a pensare di aver avuto idee migliori nella mia vita. Missoni prende le buste bianche, se le sistema tra le gambe sul serbatoio e riparte davanti a noi che lo seguiamo. Il problema è che ormai sono bucate e quindi ogni tanto vedo qualche oggetto rimbalzare sulla strada che evito zigzagando. Sento il mio passeggero esclamare qualcosa, non lo capisco ma credo di intuire, però non posso farci nulla. Spero solo che si tenga stretta la kefiah, già sta perdendo tutti i suoi averi, salviamo almeno la testa. Sono infatti preoccupato che ci fermi la Polizia, da quelle parti non scherzano visto che se passi con il rosso ti fai un mese di galera, figuriamoci un ghigliottinamento colposo. Dopo una quarantina di km un po’ scomodi arriviamo finalmente al termine dell’autostrada dritta nel deserto, c’è un incrocio perpendicolare con un’altra superstrada a mille corsie. A destra si va verso Doha, a sinistra verso Losail, cioè dove dobbiamo andare io e Ottavio. Chiedo al mio ospite dove deve andare e con la mano mi indica i grattacieli in lontananza di Doha. È un vero peccato ma le nostre strade si dividono qui. Lo faccio scendere, gli restituisco il trolley, quel che resta delle buste bianche e ci salutiamo. Nonostante tutto lui sembra contentissimo, batte la mano sul suo cuore per ringraziarci e lo vediamo incamminarsi con il suo trolley sulla rampa dell’autostrada mentre dei TIR lo sorpassano a un pelo. È anche per questo che mi piacciono i rally, non sai mai quello che ti capita.

Alberto, il (finto) culturista

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Nella tappa 2 ci aspettano altri 400 km tra trasferimenti e speciale, ma il percorso è un po’ più tecnico, sempre piatto e sassoso ma nella parte finale ci sono cordoni di dune da attraversare che sono posizionati direttamente a bordo mare. Il contrasto è fantastico. La sabbia è molle e la temperatura comincia ad essere impegnativa. Ad un certo punto vengo sorpassato dal principe Nasser Al Attiyah con il suo SSV, vederlo guidare è sempre uno spettacolo, tra le dune fa traiettorie assolutamente pulite, come se sapesse esattamente il punto migliore nel quale passare, infatti sparisce alla mia vista mentre lotto su whoops di sabbia che lui ha sapientemente evitato. D’altronde non si vincono 5 Dakar a caso. Faccio sempre coppia con Missoni per tutta la tappa, verso la fine siamo veramente stanchi e ci perdiamo. Per fortuna incontriamo Alberto Bertoldi che oltre ad essere un manico in moto (ha vinto un Transanatolia nel 2021) è un maestro nella navigazione. Nelle ultime Dakar, dopo averne fatte 2 in moto, ha infatti corso come navigatore nella categoria SSV. Nella vita gestisce una bellissima concessionaria moto a Gavardo (BS), dove oltre a venderle le aggiusta pure. Essendo quindi anche meccanico è sempre il riferimento per risolvere eventuali problemi sulla moto. A livello fisico è infaticabile per via dei suoi muscoli da culturista, quindi è assolutamente inarrestabile perché se rompe la moto la sa aggiustare e se cade riesce a incassare il colpo. Il bello è che non fa palestra, è nato già muscoloso di serie!

Arriviamo quindi in fondo alla speciale con Missoni che rimane ancora senza benzina a 2 km dalla fine. Il tempo di rabboccare e tagliamo insieme il traguardo di questo insolito ma affascinante Baja/Rally. Vince la gara il polacco Konrad Dabrowski su KTM 450 Rally, Zacchetti è come sempre il migliore degli Italiani, 8° assoluto. Missoni 18°, io finisco 21°, Bertoldi 22°, Aglioni 32°. Peccato per Paolo Lucci che ha dovuto fermarsi dopo la prima tappa per via di un polso dolorante a causa di una caduta rimediata all’Abu Dhabi Desert Challenge. Per non compromettere la stagione ha saggiamente preferito farlo riposare in vista dei prossimi impegni. Finisce anche questo rally-raid che, come sempre, mi lascia dentro la voglia di ripartire il prima possibile per un’altra avventura in qualche posto magico. Non importa dove, l’importante è farla assieme alla Dakar Band.

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